domenica 27 aprile 2014

Gli uomini e le bestie.

Non è trascorsa neanche una settimana che già sono di nuovo qui, pronto a parlare con voi di un argomento di cui progettavo da tempo la stesura: l'essere umano e le bestie.
Iniziamo con una prima obiezione che mi si potrebbe fare: "perché chiamarle bestie? Non le si può chiamare animali?", e la risposta è no, per un semplice motivo: parlare di "uomo ed animali" sarebbe come distinguere l'aquila dagli uccelli. Questo perché l'uomo è compreso nella specie animale. Ma l'uomo, nella sua superbia e presunzione, ritiene un insulto chiamare se stesso "animale", ed ecco perché adesso la parola "animale" è sinonimo di "bestia". Andando per sillogismo, allora, anche gli uomini sono bestie, il che non è molto lontano dalla realtà, come si avrà modo di vedere nel prosieguo.

Gli animali sono la macrocategoria, che si suddivide in 2 categorie: le bestie e gli esseri umani. Dove sta la differenza? Gli esseri umani sono quegli animali ai quali la Natura ha fatto dono di potenze più sviluppate rispetto a quelle spettanti alle bestie, da quelli più ancestrali come il pollice opponibile, fino ad arrivare a caratteristiche più complesse, talvolta comuni talvolta diverse per ciascun essere umano.
Nonostante ciò, l'uomo e la bestia hanno un unico grande denominatore comune: ambedue sono dotati della Ragione: ma mentre nelle bestie essa resta vincolata dalle sue caratteristiche anatomiche, l'uomo ha spinto agli estremi la propria sete di conoscenza e di dominio, allontanandosi dalla purezza del Creato e vincolandosi a sua volta con istituti e precetti antinaturali.
Ritenete assurdo che le bestie siano dotate di Ragione basandovi esclusivamente sulla loro apparenza? Ebbene, cercherò di convincervi adducendo alcune dimostrazioni.

Come primo esempio vi porto i Didelfidi (aka Opossum): in presenza di un pericolo è in grado di difendersi, ma laddove il predatore si dimostri naturalmente superiore, gioca d'astuzia e si finge morto, sfruttando l'elemento sorpresa per sfuggire da morte certa. Un sistema analogo è utilizzato dalla femmina che, per difendere i propri piccoli, distrae il predatore fingendosi morta; quest'ultimo, distratto ed incuriosito dalla preda servitagli così facilmente, distoglierà l'attenzione dai piccoli, che si dirigeranno verso un limitrofo luogo sicuro. Non appena i piccoli sono fuori pericolo, la madre "riprende vita" e scappa, lasciando a bocca asciutta il confuso e buggerato predatore.

Facendo un salto indietro di millenni, sia Erodoto (Storie, II, 68) sia Aristotele (Storia degli Animali, IX, 6) sia Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, VIII, 37) raccontano l'episodio del coccodrillo e del trochilo: questo uccellino penetra nella bocca del coccodrillo e gli ripulisce i denti del cibo di cui il rettile si è nutrito, e quest'ultimo, in ragione del favore ricevuto, non divora la bestiolina. Ai giorni nostri, il trochilo è classificato come pluvianus aegyptius, noto altresì come "guardiano dei coccodrilli" ovvero "spazzolino del coccodrillo".

Anche passando ad esempi più contemporanei e più facili da notare (ad es. il cane sa dimostrare quando è affamato o quando gli scappa un bisogno, il gatto sa che strategia usare per catturare il topo, mentre a sua volta il topo saprà architettare una strategia per sfuggirgli) emerge chiaramente il raziocinio delle bestie.

Risultati particolarmente interessanti sono riscontrabili nell'interazione tra l'uomo e la bestie: questo è il momento più naturale del Creato, ecco i due animali a confronto. Il confronto, come facilmente intuibile, può assumere 2 aspetti:

Lo scontro
Il meno comune al giorno d'oggi (per quanto desti tuttora un curioso interesse) ma di certo il più ancestrale dei confronti, il baluardo della spinta istintuale della nostra natura animale.
Presuntuosamente, l'uomo erge se stesso ad animale contro il quale la bestia non ha speranze, giocando tutto sulla malleabilità della sua Ragione; conclusione inesorabile, per chi ha venduto il proprio raziocinio a lusinghe melense ed a incoerenze diffuse su scala planetaria. Le fiabe di Esopo e di Fedro hanno innalzato lo stereotipo dell'astuzia vittoriosa sulla forza bruta (che, se applicata a determinati contesti, è senz'altro un valido esempio), ma chi ragionerebbe mai con un animale dotato di una Ratio diversa dalla propria?
Quale uomo si metterebbe a discutere con un leone, od inizierebbe a ragionare sul modo più astuto di sfuggire alla bestia? Non accadrà mai, perché l'istinto risponderebbe ed agirebbe per lui: anziché "prendi i soldi e scappa" (per citare una nota pellicola di Woody Allen), la risposta sarà "molla tutto e scappa". La reazione sarebbe la medesima anche con la consapevolezza che la Natura ha dotato la bestia di doti superiori alle nostre, dunque anche in situazioni dove la speranza di uscirne illesi è dettata più da scaramanzia che non da oggettività (nessuno potrà mai credere di poter seminare un ghepardo affamato in velocità o di poter superare una tigre in forza, chiunque lo pensasse sarebbe uno stolto superficiale).

La schiavitù cooperativa
Ecco l'effetto più comune del nostro rapporto con le bestie: divengono o i nostri giullari o i nostri schiavi, tanto dei nostri capricci quanto delle nostre passioni. Pensiamo alle mute da caccia, o alle bestie circensi che tanto appassionano gli infanti, o alle gare di bellezza dove i cani vengono agghindati come fossero delle ghirlande da appendere sopra al caminetto.
Qualcuno obietterà "e che dire, invece, delle bestie da compagnia?" Domanda tautologica, giacché la risposta sta nella definizione: bestie da compagnia, destinate a far sfogare gli uomini delle proprie paranoie e dei propri patemi. La bestia da compagnia non ti dirà mai che sei brutto, non ti dirà mai che sei grassa, non ti dirà mai che la moglie che ami tanto, mentre vai a sgobbare in fabbrica per portare il pane in tavola, accoglie nella propria alcova un uomo diverso a settimana. E perché? Semplice: perché non può, o meglio, può farlo nei limiti che la Natura gli ha concesso (pensate al cane che abbaia furiosamente contro un ospite, o si tratta di uno sconosciuto o di uno che conosce particolarmente bene uno dei coniugi).
E perché definire questa schiavitù "cooperativa"? Vi rispondo con l'ausilio di una seconda domanda: perchè mai una bestia dovrebbe sottostare ad un tale trattamento, perché dovrebbe sopportare tutte le coccole della "mammina" quando il suo più grande desiderio sarebbe correre libero in un parco accanto ai propri simili? Non è altro se non un mero do ut des: io ti do le attenzioni ed ascolto i tuoi sfoghi, tu riempimi la ciotola e svuotami la lettiera! Ecco dove sta la cooperazione di interessi, ecco la causa del contratto. Pure congetture basate sull'aria fritta, direte, ma l'egoismo non guida solamente le azioni maschili, ma guida ancora di più quelle delle bestie. E nella Ratio bestiale, non si morde la mano che ti prepara il cibo in scatola e ti risparmia la caccia e la corsa da fare dietro alla preda, per quanto nulla gli vieti di mingerti sulla moquette (se non evitare la scudisciata).

Concludo con una piccola storiella: c'era un albero di mele che cresceva nelle prossimità di un pendio, ed accanto a questo albero scorreva un impetuoso fiume.
Quando l'albero diede frutto, molte mele caddero in acqua e vennero portate via dalla corrente; altre, invece, caddero in prossimità del pendio e rotolarono giù; infine, altre caddero a terra e divennero il cibo per gli insetti.
Non importa che fine abbia fatto ciascuna mela, sempre mele rimarranno.

A. G.